- Il “Revenge Porn”, testualmente “vendetta pornografica”, si inquadra nell’ambito del più ampio fenomeno di “pornografia non consensuale” o Non Consensual Pornography (NCP), per descrivere un processo di violenza ed abuso perpetrato a danno della vittima, tramite diffusione di materiale a contenuto sessuale, senza che vi sia lo specifico consenso del soggetto coinvolto.
In effetti, al fine di identificare il reato, non è rilevante la “vendetta” in sé, quanto invece il mancato consenso: in questo caso, il “Revenge Porn” è considerato alla stregua di altri reati, quali la violazione della privacy, lo stalking, la molestia, la diffamazione e, in casi più gravi, l’istigazione al suicidio.
La normativa, attualmente in vigore solo nell’ordinamento di una decina di Paesi del mondo, entra nel nostro ordinamento nel 2019.
L’introduzione del reato in Italia si deve all’emendamento presentato dalla parlamentare Federica Zanella.
Il 2 aprile 2019, la Camera approva all’unanimità l’articolo 612ter, contenuto nel ddl. ‘Codice Rosso’, che criminalizza la diffusione di materiale sessualmente esplicito, senza consenso della persona ritratta.
L’art. 10, relativo alle disposizioni per la tutela contro la violenza domestica, specifica che chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000.
La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde, senza il consenso delle persone rappresentate, al fine di recare loro danno.
La pena viene inasprita se i fatti sono commessi da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ed aumenta, da un terzo alla metà, se i fatti sono commessi a danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o a danno di una donna in stato di gravidanza.
La legge è entrata in vigore dal 9 agosto 2019.
“Il riconoscimento del reato non basta, bisogna sostenere le vittime e obbligare le piattaforme a rimuovere i video”. Era questa la proposta di legge di Laura Boldrini, quando, appellandosi al Parlamento, auspicava che le Istituzioni si assumessero la responsabilità di dare risposte alle migliaia di donne le cui vite erano andate in frantumi.
I recenti casi di cronaca riportano alla ribalta le questioni legate all’impiego, in tali contesti, delle cosiddette “droghe da stupro”: oggi, le vittime, pur essendo apparentemente consensuali, possono rivalersi nei confronti di chi ha commesso il reato, se, contestualmente, si sono trovate in condizioni di alterazione della coscienza, di sofferenza ed amnesia.
In Germania sono proprio le piattaforme a dover cancellare entro 24 ore i contenuti illeciti, pena una multa salatissima. Tale posizione intransigente, dunque, del tutto condivisibile, dovrebbe essere estesa a livello internazionale, allo scopo di fermare la diffusione di contenuti illeciti e lesivi della dignità della persona, che rappresenta la maggiore causa di danno ricevuto.
L’evoluzione di una civiltà, infatti, si misura proprio rispetto a questi valori: solidarietà umana, rispetto della persona, comprensione e conoscenza dell’altro, affidabilità delle Istituzioni, protezione del più debole.