E’ ben evidente ormai che tutti noi, oltre alla nostra normale vita reale, ne gestiamo un’altra o addirittura più di una online, su varie piattaforme digitali, come Facebook, Instagram, Twitter, etc…
Solitamente, quando si arriva al culmine della vita, tutti i nostri beni rimangono privi di un possessore e passano nelle mani delle persone a noi più vicine, ovvero i familiari, che liberamente decideranno cosa farne. Tutto ciò ovviamente riguarda gli oggetti materiali: abbigliamento, libri, collezioni varie, magari una casa e una macchina, che gli altri hanno sempre visto; i nostri familiari, invece, non verranno mai a conoscenza delle conversazioni avute o dei pensieri condivisi con terzi, a meno che quest’ultimi non lo rivelino loro. Saranno solo ricordi. Invece nella vita digitale nulla vi è di materiale, tutto ciò che è stato salvato, viene conservato dalle aziende in un luogo altrettanto intangibile, secondo le norme volte a tutelare la sicurezza dell’utente. Ed è qui che nasce la domanda: dopo la nostra morte, quanto è giusto che i nostri familiari si impossessino dei nostri dati, che leggano le nostre conversazioni e che conoscano la nostra vita digitale, che in alcuni casi non coincide neanche con quella reale? Ovviamente è difficile fornire una risposta univoca, le situazioni sono numerose e differenti: alcune volte i dati digitali possono essere utili per fare chiarezza su una morte avvenuta prematuramente e in condizioni sospette; altre volte i familiari desiderano solo recuperare tutto ciò che apparteneva al loro caro. E la verità è che in nessuno dei vari casi abbiamo il consenso del defunto, come d’altronde avviene anche quando si decide arbitrariamente di pubblicare le lettere o i diari privati del defunto, senza conoscere con certezza quale fosse la loro volontà al riguardo.